In principio fu l’Alfasud. L’Alfa Romeo per tutti; la macchina sportiveggiante fabbricata a Pomigliano che negli anni ’70 poteva e doveva concorrere all’industrializzazione del Sud. Quell’auto “sportiva” insomma, che poteva essere comprata da un operaio che all’Alfasud spa, ci lavorava.
L’Alfasud negli anni è diventata mitica anche grazie a Carlo Verdone che con una bellissima prima serie rossa targata Monaco, nei panni del lucano Pasquale Amitrano, percorreva l’Italia dal Brennero a Matera in un viaggio della speranza alla fine del quale la povera Alfa arrivava a pezzi; senza parabrezza e senza “borchie” perché, si sa, “lo fanno, lo fanno”. Oggi le poche rimaste in circolazione non mangiate dalla ruggine hanno valori considerevoli, alla faccia di quello che fu il suo DNA di Alfa popolare.
La Giulietta a mio modo di vedere ha lo stesso codice genetico dell’Alfasud. Costruita a Cassino (che in realtà formalmente Sud non è, essendo ancora Lazio) incarna più della sua progenitrice 147 lo spirito dell’Alfa per tutti. Venduta più di ogni altra compatta in Italia nel suo periodo ha sorretto da sola, per quasi dieci anni, l’intera Alfa Romeo, ha riavvicinato al Biscione molti ragazzi ma anche molte famiglie per le quali la Mito non era grande abbastanza e la 159 che grande lo era troppo. Una berlina a due volumi, come il mercato richiede nel nuovo millennio, sulla quale molti sono nati e cresciuti e sulla quale ancora molti avranno legati ricordi indissolubili.
In una parola, la Giulietta è stata un’auto nazionalpopolare. Una macchina dal tono sportivo, comprata e sfoggiata dai ragazzi agli aperitivi come dalla giovane coppia o dal nonno pensionato. Una berlina che tanti ragazzi oggi poco più che adolescenti ancora innamorati dell’automobile (ma figli di un’epoca storica che non gli ha dato la stabilità necessaria per poterla avere a 18 anni), tra vent’anni vorranno ricomprare – magari con gli interessi dovuti al fatto che nel frattempo sarà considerata d’epoca – andandosela a cercare proprio nella versione “più alfa” di tutte. Quella con il “motore che canta”; il 1750TB. La Giulietta Quadrifoglio Verde.
1320kg, poco meno di 250 cavalli ed un bel cambio manuale. Un assetto troppo piatto e troppo rapido per credere che possa essere una Fiat, un motore sonoro e che sa avere coppia ma anche allungo, un turbobenzina con il carattere dell’aspirato perché questo, in fondo, era quello che volevano gli Alfisti.
La Giulietta Quadrifoglio Verde (si chiama proprio così, come le Alfa classiche) è una macchina particolare per me perché quando fu lanciata sul mercato abitavo in un altra nazione. La desideravo in quanto Alfa ed in quanto italiana, cosa forse scontata ma che spesso solo chi abita all’estero capisce fino in fondo. Tornai in Italia e, purtroppo, non potevo averla ma potevo ammirare quella di un parente che l’aveva appena presa; millequattro a benzina, bianca e bellissima. Per vari motivi non la comprai e restò per sempre nei miei desideri finché non fu presentata la Giulia nel 2015. La Giulietta rimase e sempre rimarrà l’auto che non ho mai avuto.
Un’auto che, dai più, non è mai stata considerata status symbol come la sua rivale d’elezione, la mitica Golf GTI, solo a causa di quel marchio Alfa – prestigioso come pochissimi al mondo – che però, in un paese di esterofili per cultura, non è mai riuscito a farsi apprezzare veramente se non da una cerchia di intenditori. Un’auto per tutti ma che viene valorizzata davvero solo da chi conosce bene il valore intrinseco dei motori.
In un periodo di grave congiuntura economica (Giulietta è figlia della Grande Recessione post Lehman Brothers), dopo il motore Busso, sostituito dall’inglorioso V6 di derivazione Holden (il “motore dei canguri”, come definito da un mitico meccanico milanese che lavora e corre sulle Alfa Romeo da tutta la vita), dopo che il nome della Delta veniva stuprato e profanato con l’ovetto del 2008, dopo che il “ventennio Diesel” aveva ormai consolidato il motore a gasolio come “padre fondatore” della mobilità dell’Europa tutta, quando la Giulia (952) con la sua perfezione meccanica e stilistica non era nemmeno lontanamente immaginabile, Giulietta era lì, a ricordare a tutti che in Italia le automobili veloci e le automobili belle le abbiamo sempre sapute fare.
Ed è proprio dalla Giulietta Quadrifoglio Verde che vogliamo ripartire per chiudere un cerchio. Tra una manciata di giorni uscirà di produzione e si concluderà la Storia di questa macchina accusata di essere troppo Fiat solo perché contemporanea alla Bravo anche se costruita su un pianale differente, accusata di essere eccessivamente “generalista” e poco “Biscione” perché dotata di interni forse un po’ sottotono ma che è stata un enorme successo commerciale e che, con le sue forme sensuali come da sempre sanno essere solo le auto del marchio milanese, rimarrà indelebile nei ricordi di chi l’ha avuta e di chi l’ha solo sognata.