Negli ultimi anni si parla sempre con maggiore insistenza della disattivazione dei cilindri. Una tecnologia che ora viene accolta con indifferenza perché già ampiamente utilizzata negli anni passati, ma che un tempo rappresentava una novità assoluta. A inizio anni “80 pochi si sarebbero aspettati una vettura con un sistema di disattivazione dei cilindri efficiente e funzionale. L’elettronica all’epoca era embrionale, poco sviluppata e poco utilizzata dai costruttori di auto. Nel 1976 però Alfa Romeo e un reparto dell’Università di Genova iniziano una collaborazione che passerà alla storia. Da li al 1981 lavoreranno a ritmi serrati per rendere la disattivazione dei cilindri dei cilindri una realtà e non solo un prototipo da mostrare ai saloni.
Proprio nell’81 Alfa Romeo presenta, seppur in soli 10 esemplari, l’Alfetta C.E.M. dove CEM sta per controllo elettronico motore. Una sigla apparentemente insignificante per i non addetti ai lavori ma di fondamentale importanza per la tecnologia che stava “prendendo piede”. La centralina C.E.M. aveva una memoria di soli 6 kb, una cifra ridicola pensando alla potenza di calcolo delle moderne centraline.
Questa “memoria corta” era però sufficiente per memorizzare due specifiche mappe di funzionamento per il motore. Queste due mappe avevano la capacità di trasformare l’iconico bialbero 4 cilindri 2.0 di Alfa Romeo in un bicilindrico. A seconda delle circostanze infatti la disattivazione dei cilindri avveniva sui cilindri esterni o interni, ma tutto aveva una logica di funzionamento ben precisa.
La centralina “leggeva” i giri motore ma anche i gradi di apertura della farfalla. Nel primo caso l’Alfetta non doveva superare i 2800 giri/minuto e nel secondo l’apertura massima è di 40°. Tradotto in parole povere era fondamentale avere il piede leggero, così il sistema elettronico comprendeva la volontà di un funzionamento meno performante ma più economo del motore.
Velocità massima raggiungibile poco più di 100 km/h, dopo di che si sarebbero attivati anche i due cilindri esclusi. Tale tecnologia ha avuto il merito di ridurre consumi ed emissioni dal 15 al 25% senza che il conducente si accorgesse di nulla, o quasi. Già perché proprio come molti bicilindrici moderni il sound del bialbero ne usciva leggermente compromesso, e le andature erano meno fluide del solito, un pò claudicanti usando un termine umano.
Gli interni del tutto analoghi a quelli di una classica Alfetta vedevano delle aggiunte nei pressi del classico Alfa Romeo Check Control. Alle classiche voci si aggiungevano quelle specifiche del sistema di disattivazione dei cilindri denominate Diagnosi Cem e sensori. Il sistema includeva due interruttori per l’autodiagnosi dell’impianto che andavano attivati periodicamente e numerose spie di funzionamento. Manco a dirlo questo sistema rivoluzionario prese in contropiede la critica e gli acquirenti.
I costi di gestione più elevati di una classica Alfetta però rappresentavano un problema. Nel 1981 Alfa Romeo decise di affidare i primi 10 esemplari “sperimentali” ad altrettanti tassisti milanesi. L’idea era quella di mettere l’auto nelle sapienti mani di chi l’avrebbe usata per la città lombarda a bassa velocità sfruttando a pieno le potenzialità del sistema CEM. In questi casi infatti la disattivazione dei cilindri avrebbe portato enormi benefici in termini di consumi ed emissioni.
Periodicamente i tassisti dovevano portare la loro Alfetta in “sede centrale” per le opportune verifiche e dovevano eseguire a distanza l’autodiagnosi per verificare il corretto funzionamento del sistema. Così facendo Alfa Romeo testava le auto in condizioni d’uso comune ma intenso monitorando le prestazioni, i consumi e l’affidabilità della sua nuova creatura.
Dopo due/tre anni di test la casa di Arese decide finalmente di produrre 994 esemplari di Alfetta CEM da vendere a clienti selezionati e consapevoli di ciò che stavano acquistando. Di fatto il sistema funzionò quasi sempre molto bene. Sia la fase di sperimentazione che di vendita dimostrò un funzionamento lineare e costante del CEM anche se i costi si dimostrarono elevati sia per la vendita che per la produzione. Nel 1985 Alfa Romeo consapevole della bontà del progetto lo ripropone sull’Alfa 90 con i doverosi aggiornamenti. La differenza sostanziale era il motore, stavolta non si trattava più del 2.0 bialbero 4 cilindri ma del 2.0 v6.
Tutti questi “esperimenti” seppur commercializzati in piccoli numeri non ebbero seguito e i costi alti di sperimentazione e produzione spinsero Alfa ad abbandonare completamente il progetto. La risposta del pubblico inoltre era ancora timida e alcuni giornali dell’epoca ne parlano come di una rivoluzione silenziosa e troppo futuristica per essere capita. Sta di fatto che anche questa volta Alfa Romeo ci aveva visto lungo. Ha creato una tecnologia innovativa ed efficace a distanza di 40 anni. Anche stavolta però il marchio italiano ci ha creduto poco.
I soldi muovono il mercato e le rivoluzioni a perdere sono giustamente viste malissimo da chi investe per la produzione. Peccato perché con qualche “affinamento” il sistema CEM avrebbe retto nel tempo e le sue evoluzioni avrebbero sicuramente lasciato traccia anche ai giorni nostri. Concretamente però c’è anche da dire che le attuali motorizzazioni di Alfa Romeo non necessiterebbero di tale tecnologia in quanto, analogamente a quanto fatto da altri produttori, i sistemi per limare consumi ed emissioni sono stati affinati in modo differente. Era giusto però ricordare un’auto gloriosa come l’Alletta CEM dotata del sistema di disattivazione dei cilindri in un epoca in cui le concorrenti si domandavano come poter usare la fantascientifica elettronica.